venerdì 9 marzo 2012

DIPINTI DA CAVALLETTO DI GIACOMO DEL PO

Un pittore onirico, evanescente, surreale

Nei dipinti di cavalletto, più che nelle numerose decorazioni per le dimore patrizie napoletane possiamo osservare, entrando nel nuovo secolo, una variazione nello stile e nella cromia delle immagini, che diventano oniriche ed evanescenti, a dir poco sconvolgente. Il Del Po, “attraverso una ripresa mediata delle più antiche fonti rubensiane e del Seicento genovese, poteva così dar vita ad un nuovo linguaggio, impostato su di un’ardita esperienza di capricciose levità cromatiche, inedite, rarefatte, ora asprigne ora preziosamente schiarite, volte alla dissoluzione del vincolo costruttivo in un processo che era, nello stesso tempo, di smaterializzazione delle immagini e di fantasiosa solidificazione di fluttuanti visioni di luce. Veramente un’immissione originale di grande portata per il rinnovamento della scuola napoletana ed il determinarsi dell’infinita serie delle divagazioni rococò”(Causa).
Il pittore modifica poi sensibilmente la sua maniera fondendo gli elementi seicenteschi romani del Gaulli con la lezione del Giordano e le sue formulazioni si svolgono con un gusto tutto personale parallelamente alle nuove sperimentazioni del Solimena, ma completamente distaccate da lui.
La tavolozza degrada nei toni più fluidi con tinte grigio argentee, verdi tenui, violacei e amaranto nei toni bassi ed altre miscele di colori ardite ed originali.
Eseguita sul finir del Seicento, per una palpabile propensione al tenebrismo pretiano ed in anticipo di qualche anno sulle tele della chiesa di S. Maria dei Sette dolori è la Morte di Lucrezia (fig. 1), transitata sul mercato antiquariale romano e poi a Milano in un’asta Finarte del 1973; nella quale si individuano anche i primi segni di un interesse crescente verso le soluzioni del tardo barocco genovese.

Come pure ancora seicenteschi pensiamo siano l’inedito Incontro di Cristo con la Veronica (fig. 2) di recente transitata sul mercato antiquariale tedesco, il Sacrificio di Ifigenia (fig. 3) del museo del Sannio e Diana con satiri e ninfe (fig. 4), attribuito all’artista dal Briganti in collaborazione con Giuseppe Ruoppolo, ma di autografia border line.



Tra i dipinti collocabili ai primi anni del Settecento possiamo includere, tutti stilisticamente affini, la Maria Maddalena (fig. 5), da alcuni ritenuta una S. Rosalia, del museo Campano di Capua, la Madonna Addolorata (fig. 6) di collezione privata napoletana, la Maria Maddalena (fig. 7) della collezione Paul Ganz di New York, l’Ecce Homo (fig. 8) ed il San Gennaro (fig. 9) del museo di Capodimonte, in linea, per l’alta qualità coloristica, con gli esiti del barocco di Luca Giordano e con la cultura di derivazione romana e berniniana del genovese Giovan Battista Gaulli, il Sogno di San Giuseppe (fig. 10) del museo Correale, in precedenza assegnato a Francesco Trevisani ed a Francesco Solimena, il quale è certamente un autografo del Del Po, ed infine le due scene mitologiche già in collezione Lessona a Napoli, che vennero esposte alla mostra Civiltà del Settecento, probabilmente realizzate sul finire del primo decennio. Anche la S. Agnese (fig. 11) del museo diocesano di Napoli, proveniente dalla casa di suor Maria di Gesù, dal solido impianto compositivo e dagli abiti sontuosi, è coeva alle tele trattate in precedenza, dalle quali si distingue unicamente per lo spirito del tutto laico con cui è rappresentata, riservando ai soli attributi tradizionali: l’agnello e la palma, il compito di rammentare le sue virtù di vergine e martire.







Le due composizioni già in collezione Lessona raffigurano il celebre incontro tra Angelica e Medoro (fig. 12) raccontato nell’Orlando Furioso, mentre l’altra si riferisce probabilmente al mito di Eco e Narciso (fig. 13) di cui si parla nelle Metamorfosi di Ovidio. Dovevano far parte di una serie più ampia illustranti famose storie e leggende di vicende amorose. Si notano in entrambe, accanto ad elementi della pittura barocca genovese e del pittoricismo giordanesco, anche riferimenti di cultura classicista e poussiniana.


Anche la Danae (fig. 14), firmata, di collezione Mangini a Firenze ed i due piccoli dipinti su rame Fuga di Angelica (fig. 15) e Nettuno e Giunone (fig. 16), transitati presso Sotheby’s a Londra, appartengono per evidenti affinità stilistiche e compositive agli stessi anni e precedono di poco lo spettacolare rame raffigurante Camilla (fig. 17), già presso l’antiquario londinese Agnew sul finire degli anni Settanta. In particolare la Danae, un soggetto laico, viene trattato con una pennellata audace e maliziosa, immersa in un’atmosfera sensuale che tutta la pervade, a lampante dimostrazione di come Giacomo sia a suo agio con eguale abilità nel trattare soggetti sacri o profani con la stessa scoppiettante fantasia e dilagante libertà espressiva.




Il dipinto fu esposto alla mostra Sulle ali dell’aquila imperiale ed è molto vicino alle tele del transetto della chiesa di S. Teresa degli Studi, eseguite nel 1708 ed in particolare al fulgido bozzetto con San Domenico di Gesù Maria che combatte a Praga contro i protestanti (fig. 18). Esso racconta una battaglia di Amazzoni con in primo piano Camilla, la vergine figlia del re dei Volsci, la quale, attorniata dalle sue ancelle, combatte contro gli Etruschi alleati di Enea e guidati da Arrunte.

Di questi anni è anche la famosa Circe, (fig.19), della pinacoteca D’Errico di Matera, che fu esposta anche alla Mostra sui tre secoli della pittura napoletana del 1938, la quale, nella sua ammaliante fascinosità di domatrice di uomini, fonde elementi culturali di diverse matrici, non solo il tardo barocco genovese ed il luminismo pretiano, una costante nella cifra stilistica del Del Po, ma anche le negromanzie di Salvator Rosa e la pittura evanescente e surreale di Schonfeldt, tutto però, come ebbe a sottolineare Spinosa, “filtrato attraverso una sensibilità moderna ed irrequieta che inclina al capriccio rococò e a soluzioni di vivace fantasia creativa”.

La sensuale Circe, abbigliata di soli veli e piume, che ne mettono in risalto le forme sinuose, reca nella mano destra la bacchetta magica, puntata verso i libri di incantesimi, mentre con la sinistra somministra soddisfatta la pozione alle sue vittime per tenerle soggiogate.
Leggermente posteriori sono i dipinti illustranti episodi del poema di Milton il Paradiso perduto, pubblicato in Italia nel 1729, ma del quale circolavano da tempo incisioni alle quali il pittore può essersi ispirato per le sue creazioni, due delle quali, la Porta dell’Inferno (fig. 20) ed Adamo ed Eva (fig. 21) furono rese note già nel 1970 dal Vitzhum, quando si trovavano presso Paul Ganz a New York, mentre un’altra scena: la Cacciata degli angeli ribelli (fig. 22) è transitata presso Colnaghi a Londra.



Sono composizioni caratterizzate da un cromatismo scintillante e smaltato che ottiene una sorta di vibrazione nella vista dell’osservatore con una serie di immagini iridescenti, di incantate scenografie, di surreali fantasie trasfigurate in un tripudio di luci e di colori.
Veramente belli sono i due rami raffiguranti dei Baccanali (fig. 23 – 24) conservati nel museo della Floridiana dalle tinte forti e rugginose, in essi il paesaggio classicheggiante alla Poussin sembra dominare la scena con dei bagliori lividi ed incandescenti, partecipe della gioia pagana che promana prepotente dai corpi flessuosi delle fanciulle dai seni al vento, spiritosi e prominenti, ben evidenziati dalle braccia alzate a fendere l’aria crepuscolare; attorno alla fiamma danzano ritmicamente ninfe e satiri, in delirio voluttuoso dei sensi, ben espresso da un cromatismo liquido ed avvolgente.


Due copie autografe sono presso la collezione D’Errico a Matera, mentre nella quadreria del Suor Orsola Benincasa si trova un’altra composizione con varianti, purtroppo in precario stato di conservazione.
Nel museo Correale a Sorrento sono conservati due ovali raffiguranti Apollo e Dafne (fig. 25) e Pan e Siringa (fig. 26), episodi narrati nelle Metamorfosi.


Collocati dalla Picone verso la fine del secondo decennio, quando la studiosa leggeva nelle sue composizioni un impreziosirsi delle forme e della materia cromatica, sono state arretrate dal Rabiner intorno o poco oltre il 1710, ma probabilmente i due quadri dovrebbero essere ulteriormente scalati in consentaneità con le due tempere, firmate e datate 1698, in collezione Grassi a New York, di Teresa Del Po, la quale, secondo le fonti, era solita trasferire sul foglio, attraverso la tecnica del pastello o della miniatura, modi e modelli del più celebre fratello Giacomo.
Nell’Apollo e Dafne viene fissato sulla tela il momento dell’inizio della metamorfosi della ninfa, dalle cui mani, appena raggiunta dall’inseguitore, stanno spuntando delle foglie di alloro, la pianta che diverrà sacra al dio invaghitosi, mentre nell’altro episodio, viene immortalato l’attimo in cui l’essere mezzo uomo e mezzo capro, la faccia grinzosa e la pelle scura, guadagna la naiade, ma afferra, al posto della tenera carne, un cespo di giunchi.
“Dafne, un seno scoperto nell’incedere ritroso, ha incarnati di perlacea stesura; nell’altra scena, non sono altro che spaghi di verde scritti speditamente dal pennello le ciocche allungate del cespuglio abbrancato da Pan; intanto che sui fondi s’aprono paesaggi di vago notturno, ricolmi di frescura boschiva”(Russo).
Si tratta di quadri richiesti da una clientela colta ed affezionata, la stessa che richiedeva all’artista di decorare volte e pareti dei loro aristocratici palazzi ed il tema, trattato da altri pittori di primo Settecento, da Solimena a De Matteis, viene reso sulla tela con una pennellata raffinata, avendo cura di posizionarsi in un clima di sottigliezze formali tra Arcadia colta ed un rococò capriccioso e brillante.
Nel museo Duca di Martina è conservato un bozzetto, firmato per esteso, per una composizione non identificata, raffigurante la Decollazione di San Gennaro (fig. 27), di più ampia inquadratura rispetto ad una replica autografa con leggere varianti, già in collezione Lorenzetti.

Nei due quadri sono visibili le notevoli qualità cromatiche del pittore con l’uso di una tavolozza brillante e sfilacciata, in grado di far balenare intensi bagliori di luce sul corpo del santo ed in alto tra le nuvole.
Vicina a questi due bozzetti il David che suona l’arpa (fig. 28) dell’antiquario Crinelli di Roma, dominata da una pennellata che imprime fantasia ai valori luministici ispirata, qui come altrove, al brillante colorismo del Giordano ed al frizzante pittoricismo del Baciccio.

Mi riesce difficile datare con precisione la strepitosa Flora (fig. 29), di collezione privata londinese, eseguita con colori squillanti e con la collaborazione di un ignoto fiorante. La qualità veramente superba della tela, un apice inconsueto nella produzione dell’artista, potrebbe porre qualche dubbio sull’autografia, autorevolmente confermata da Spinosa, che ha pubblicato l’opera nel volume dedicato al Settecento della collana di Storia del Mezzogiorno.

La scena mitologica della collezione Naschi di Caserta si colloca nell’ultima fase della produzione del Del Po quando “le sue tele di matrice solimenesca si alleggeriscono, acquisendo caratteri più squisitamente rocaille, ricchi di manierismi e squisitezze stilistiche”(Masi).
Anche la Natività transitata presso Dorotheum a Vienna, attribuita da Longhi a Giacinto Diano, appartiene all’avanzata maturità dell’artista, alla quale può essere assegnata con certezza per le stringenti affinità compositive e cromatiche con la Madonna del Rosario eseguita nel 1718 per la chiesa di San Pietro Martire; forse il quadro potrebbe essere quello pagato nel 1725 dal console inglese William Hammond.
L’ultima opera che la critica gli assegna è un’Assunzione con quattro santi della pinacoteca dell’Abbazia di Montecassino, nella quale la Vergine è costruita a somiglianza di quella della cattedrale di Sorrento, mentre alla base compaiono quattro santi, due in primo piano e gli altri due, forse S. Domenico e S. Antonio, sullo sfondo, tutti trattati con un colore inusitato, carico di sprizzante energia, che li fa apparire alteri e solenni. Sembra una pennellata che procede per piccoli tocchi di luce trasparente quasi impalpabile; non è più lo squarcio luminoso che ghermisce, ma la cromia diffusa che si sfilaccia in infiniti rivoli di materia.
Un canto del cigno per un artista originale, onirico, evanescente dallo stile personalissimo e bizzarro e dal colorismo dirompente teso a stravolgere la realtà, conducendola ai limiti dell’impossibile ed alla dimensione del sogno.

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